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Imprenditore agricolo: esenzione dal fallimento e onere della prova

Imprenditore agricolo: esenzione dal fallimento e onere della prova
Autore: Avv. Matteo Conte

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1049 del 21.01.2021, è tornata ad occuparsi dell’esenzione dal fallimento dell’imprenditore agricolo, affrontando, in particolare, il tema del riparto dell’onere della prova nel giudizio prefallimentare.

Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, il Tribunale di Savona, ritenuta inammissibile la domanda di concordato presentata dal titolare di un’impresa individuale, ne ha dichiarato il fallimento, sostenendo che il debitore non avesse adeguatamente assolto l’onere di dimostrare la natura agricola dell’impresa.

A seguito di reclamo, la Corte d’Appello di Genova si è poi espressa in senso analogo, aggiungendo che l’imprenditore non aveva dimostrato la prevalenza dell’attività agricola rispetto a quella commerciale esercitata.

Com’è noto, infatti, ai sensi dell’art. 1 L.F., sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo solamente gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale. Da tale previsione ne è derivato il principio generale per cui l’imprenditore agricolo, definito dall’art. 2135, comma 1, c.c. come colui che “esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”, non sarebbe assoggettabile al fallimento.

In proposito, la giurisprudenza della Suprema Corte e il nostro legislatore hanno progressivamente esteso la definizione di imprenditore agricolo - anche e soprattutto in ragione della crescente industrializzazione dell'agricoltura - con la conseguenza che la riforma del 2001 (che ha modificato l'art. 2135 c.c.) ha abbandonando l'originario criterio del “collegamento con la terra e i rischi connessi all’attività agricola derivanti dalle stagioni”, ricomprendendo anche le attività “connesse” e “strumentali” all'attività agricola.

Secondo quanto previsto dal novellato art. 2135, comma 3, c.c., per “attività connesse” si intendono infatti quelle dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata.

Tale processo ha però condotto dottrina e giurisprudenza a interrogarsi sull'opportunità di individuare il confine tra l’imprenditore agricolo “in senso stretto” e l’imprenditore agricolo che svolga anche attività di natura “commerciale o industriale”, proprio al fine di circoscrivere l’ambito applicativo della Legge Fallimentare.

Secondo l'ormai consolidato orientamento della Suprema Corte, l'imprenditore agricolo è soggetto all'applicazione della disciplina fallimentare soltanto “quando risulti accertato in sede di merito l'esercizio in concreto di attività` commerciale, in misura prevalente sull'attività` agricola contemplata in via esclusiva dall'oggetto sociale” (Cassazione Civile, Sez. I, 22.02.2019, n. 5342).
È dunque esonerato dal fallimento l'imprenditore che, in concreto, svolga in misura prevalente attività agricola (Cassazione Civile, 8.08.2016, n. 16614), essendo irrilevante, in proposito, il grado di organizzazione e le dimensioni dell'azienda (Tribunale Ravenna, 28.02.2019, n. 232; Tribunale di Rimini, 25.02.2020).

Nel caso in esame, la Suprema Corte, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dall’impresa fallita (avendo dedotto soltanto apparentemente una violazione di legge, mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal Giudice di merito, così realizzando una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di giudizio), ha richiamato alcuni principi ormai pacifici in giurisprudenza.

In particolare, la Cassazione ha ribadito come, ai fini dell'accertamento della fallibilità dell'imprenditore agricolo, competa a chi solleciti la dichiarazione di fallimento allegare e dimostrare l'esistenza di un'attività commerciale che si affianchi a quella agricola, affinché sia possibile constatare il ricorrere del presupposto richiesto dall'art. 1, comma 1, L.F.

Grava invece sul debitore che invochi l'esenzione dal fallimento, l’onere di provare - ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c., nonché in applicazione del generale principio di “vicinanza della prova” - la riconducibilità dell’attività commerciale eventualmente svolta nell’ambito delle “attività connesse” di cui al citato art. 2135, comma 3, c.c., offrendo ad esempio la prova che i prodotti commercializzati siano ottenuti prevalentemente attraverso la coltivazione del fondo o l’allevamento degli animali.

Nel caso in esame, il Giudice di merito aveva accertato che l’impresa agricola dichiarata fallita, pur curando l’intero ciclo biologico di una parte delle piante destinate alla vendita, avesse altresì provveduto all’acquisto di numerosi prodotti già pronti per la commercializzazione.
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