Autore: Goffredo Giordano
Lo studio professionale non è
equiparabile ad un’azienda! Su questo è concorde dottrina e giurisprudenza.
Infatti, lo studio professionale si
differenzia dall’azienda in ragione della personalità della prestazione resa
dal professionista, dalla prevalenza di quest’ultimo sull’organizzazione della
struttura e dall’incapacità della struttura medesima a produrre ricchezza
autonomamente dalla figura del titolare.
Pertanto, la cessione dello studio
professionale non si può configurare come un trasferimento d’azienda nel suo
complesso, con la conseguenza che non può essere applicata la medesima
disciplina fiscale. Infatti, lo studio professionale è costituito da una
pluralità di rapporti giuridici che devono essere trattati, da un punto di
vista fiscale, con differenti discipline nel momento della cessione.
Nella prassi italiana il trasferimento
a titolo oneroso dello studio professionale, organizzato sotto forma di
ditta individuale, avviene attraverso la stipula di un contratto preliminare che
precede, di qualche mese, la stipula del contratto definitivo.
Gli atti di cessione dello studio
professionale contengono una serie di clausole che regolamentano:
- la parte economico-finanziaria
dell’operazione;
- il trasferimento dei vari rapporti
giuridici che compongono lo studio;
- La cessione delle attrezzature;
- gli obblighi assunti dalle parti.
Ma, ai fini fiscali, qual è il regime da
applicare alle varie transazioni?
Il contratto preliminare
Il contratto preliminare è un contratto
che obbliga entrambe le parti alla stipula del contratto definitivo. Nella
quasi totalità delle operazioni all’atto della sottoscrizione della stipula del
contratto preliminare parte acquirente versa una somma di danaro a titolo di caparra
confirmatoria ai sensi dell’articolo 1385 del Codice Civile.
La funzione della caparra confirmatoria è
quella di prestabilire la misura del risarcimento del danno in caso di
inadempimento ingiustificato.
Ai fini delle imposte dirette l’incasso
della caparra confirmatoria, versata contestualmente alla sottoscrizione di un
contratto preliminare, non costituisce corrispettivo dell'operazione fino a
quando non venga imputata al prezzo. Ne consegue che il versamento della
caparra confirmatoria non ha alcuna rilevanza ai fini delle imposte dirette
fino al momento in cui sia imputata, appunto, in conto prezzo.
Ai fini del trattamento IVA della caparra
confirmatoria è intervenuta recentemente la Corte di Cassazione con
l’ordinanza n. 3736 del 2019.
Con tale ordinanza la Suprema Corte è
tornata a trattare il tema della rilevanza, ai fini dell’assolvimento
dell’imposta sul valore aggiunto, della corresponsione di somme legate a contratti
preliminari a titolo di acconti sul prezzo o caparre confirmatorie.
La Suprema Corte ribadisce il principio per cui “in tema di Iva, il versamento
di una caparra confirmatoria a corredo di un preliminare di
vendita, rimasto inadempiuto, non determina l’insorgenza del presupposto
impositivo, in quanto assolve una funzione di risarcimento
forfettario del danno e non di anticipazione del corrispettivo”.
Il contratto definitivo
Alla stipula del contratto definitivo,
quindi nell’ipotesi di regolare adempimento del contratto preliminare, la caparra
confirmatoria è restituita o imputata al prezzo dello studio professionale.
Ai fini delle imposte dirette tale corrispettivo
rientra tra i redditi professionali in ottemperanza a quanto stabilito dall’articolo
54, comma 1-quater del T.U.I.R. il quale prevede espressamente che “Concorrono
a formare il reddito i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della
clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica
o professionale”. Ribadendo, quindi, anche il principio “di cassa”.
Pertanto, all’incasso del corrispettivo il
professionista cedente dovrà emettere una regolare parcella soggetta ad IVA,
ritenuta d’acconto e cassa di previdenza.
Da parte acquirente i costi derivanti
dall’acquisizione di un “pacchetto clienti” sono costi interamente
deducibili, proprio in considerazione del fatto che questi sono stati
considerati, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, pari alle consulenze
professionali rese e pertanto, ai fini della loro deducibilità, costi
inerenti all’attività professionale.
E’ il caso di precisare che, nella quasi
totalità delle operazioni M&A di studi professionali (particolarmente per
commercialisti e consulenti del lavoro), il contratto di cessione dello studio
potrebbe anche prevedere che una parte del prezzo venga imputata alla cessione
del marchio dello studio e/o delle attrezzature e/o quale corrispettivo per il
patto di non concorrenza (uno dei maggiori obblighi che assume parte cedente). Per
quanto concerne i corrispettivi percepiti a seguito della cessione del marchio (ma
anche per tutti gli elementi immateriali), essi sono riferibili all’attività
artistica e rientrano tra i redditi professionali ex art. 54 del T.U.I.R..
Per quanto concerne la cessione
dei beni strumentali all’esercizio dell’attività professionale
occorre fare riferimento al comma 1-bis dell’art.54 del T.U.I.R., il
quale stabilisce che sono fiscalmente rilevanti le plusvalenze e minusvalenze
realizzate alternativamente:
- mediante la relativa cessione a titolo
oneroso;
- mediante il risarcimento, anche in forma
assicurativa, conseguito per la perdita o il danneggiamento dei beni medesimi;
- limitatamente alle plusvalenze, mediante
la relativa destinazione al consumo personale o familiare dell’esercente l’arte
o la professione o a finalità estranee all’arte o professione.
La plusvalenza o la minusvalenza è
calcolata come differenza tra il corrispettivo percepito e il costo non
ammortizzato e concorre alla formazione del reddito nel periodo d’imposta in
cui avviene l’incasso. Da un punto di vista pratico il professionista che cede
i beni strumentali dovrà emettere una parcella soggetta ad IVA ma non a cassa e
ritenuta d’acconto.
Per quel che attiene l’eventuale
imputazione di parte del prezzo al compenso per l’assunzione dell’obbligo di
non concorrenza, esso dovrebbe essere ricondotto nella previsione dell'articolo
67, comma 1, lettera l) del T.U.I.R., il quale espressamente qualifica
come redditi diversi quelli derivanti dall'assunzione di obblighi di fare, non
fare o permettere. Pertanto, parrebbe non valere il principio dell’attrazione
del reddito in quanto l’obbligazione assunta da parte cedente non sarebbe una
attività oggettivamente connessa a quella professionale.
Da parte acquirente il costo sostenuto è
deducibile, in aderenza al principio di cassa, nell'esercizio in cui viene
effettivamente sostenuto.
L’incasso della parte rateizzata
Per quanto concerne la parte rateizzata anche
questa deve avere la qualificazione reddituale operata dall’articolo 54,
comma 1-quater, del TUIR. Di conseguenza, la cessione del «pacchetto
clienti» genera interamente reddito professionale da assoggettare a tassazione
ordinaria ai sensi dell’articolo 54 del TUIR. Ai fini IVA, in considerazione del
fatto che il professionista cedente è obbligato ad emettere parcella per le
rate incassate (assoggettandole ad IVA, CP e ritenuta d’acconto), egli, anche se
intende cessare l’attività, deve conservare la partita IVA fino all’incasso
dell’ultima rata.
L’ipotesi dell’incasso in un’unica
soluzione
E’ il caso di precisare che anche
nell’ipotesi (alquanto remota) di incasso del corrispettivo in un’unica
soluzione (ma anche in più rate ma nello stesso periodo d’imposta così come
chiarito dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 11 del 16/02/2007),
questo rientra sempre tra i redditi professionali ex articolo 54, comma
1-quater del TUIR, ma può beneficiare del regime della tassazione separata
previsto dalla lettera g-ter) dell’articolo 17 del TUIR.
Tale norma ha lo scopo di evitare che i
corrispettivi derivanti dalla cessione della clientela professionale si
cumulino con gli altri redditi percepiti nell’anno, determinando l’applicazione,
in capo al contribuente, di scaglioni ed aliquote più elevate.