La sentenza della Corte Costituzionale segna una svolta in un sistema sanzionatorio, nell’ambito dei licenziamenti illegittimi che rischia di creare un notevole sbilanciamento tra diritti dei datori di lavoro e quelli dei lavoratori.
Il contesto
L’esame della Corte Costituzionale si è incentrato sull’art. 9 co. 1 del D.lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act) nella parte in cui individuava nelle sei mensilità il tetto massimo per l’indennizzo dovuto ai lavoratori, in caso di licenziamento illegittimo (senza giustificato motivo soggettivo od oggettivo) in imprese che occupano meno di 15 dipendenti.
La riforma del 2015, che comunque si poneva in linea anche con il precedente dettato normativo, risultava preferenziale per i datori di lavoro di aziende c.d. piccole (più vulnerabili economicamente) ma fortemente penalizzante per i loro dipendenti che, indipendentemente dall’anzianità di servizio, si trovavano in notevole svantaggio rispetto a colleghi con la medesima anzianità ma occupati in imprese con più di 15 dipendenti.
Per questi ultimi, infatti, al netto delle tutele reintegratorie, l’indennizzo puramente economico aveva e ha una base di partenza del doppio; la norma infatti, stabilisce che il ristoro debba essere compreso tra le 12 e le 24 (ora 36) mensilità.
La pronuncia della Corte Costituzionale
La Corte, accogliendo le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale del Lavoro di Livorno, ha vagliato il limite imposto dalla normativa in vigore e lo ha ritenuto altamente lesivo dei diritti dei lavoratori in quanto direttamente contrario alle previsioni degli artt. 3 e 35 della Costituzione.
Il passaggio fondamentale della decisione è così riportato:
“Quel che confligge con i principi costituzionali, dando luogo a una tutela monetaria
incompatibile con la necessaria «personalizzazione del danno subito dal lavoratore» (sentenza n. 194 del 2018), è piuttosto l’imposizione di un tetto, stabilito in sei mensilità di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, che comprime eccessivamente l’ammontare dell’indennità.
Tale significativo contenimento delle conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro … delinea un’indennità stretta in un divario così esiguo (ad esempio, da tre a sei mensilità nel caso dei licenziamenti illegittimi di cui all’art. 3, comma 1, del citato decreto legislativo) da connotarla al pari di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata. Ma una siffatta liquidazione è stata già ritenuta da questa Corte inidonea a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi a costituire un ristoro del pregiudizio sofferto dal lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del principio di eguaglianza”.
Più in particolare, la pronuncia ha rilevato come sia necessario che il legislatore prima, e il giudice poi, abbiano un margine per modulare la tutela con i parametri del caso concreto affinché non vi sia compressione dei diritti costituzionalmente garantiti.
Detta esigenza, peraltro, è stata espressamente individuata nella stessa sentenza: “Resta fermo l’auspicio che il legislatore intervenga sul profilo inciso dalla presente pronuncia, nel rispetto del principio, qui affermato, secondo cui il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale”.
Gli effetti immediati della decisione
L’effetto della pronuncia di cui sopra è che, quindi, non esiste più il tetto delle 6 mensilità nei licenziamenti per aziende con meno di 15 dipendenti. Tuttavia, di contro, il legislatore non è ancora intervenuto a modifica della disciplina creando una lacuna che, attualmente, dovrà essere colmata unicamente dalla giurisprudenza di merito.
Il giudice potrà ora determinare liberamente l’entità dell’indennizzo, anche nelle imprese “sotto soglia”, applicando i criteri di equità previsti per le aziende più grandi.
Per i lavoratori, la pronuncia rappresenta un rafforzamento della tutela creando uguaglianza con gli altri dipendenti a parità delle altre condizioni contrattuali; per i datori di lavoro cresce il rischio economico legato ai contenziosi perché non vi è più un parametro fisso (e un tetto massimo) a cui riferirsi in caso di condanna.
Le implicazioni per le piccole imprese
Se, effettivamente, era giusto e corretto non penalizzare i lavoratori è altrettanto pacifico che in questo modo (senza una rete di sicurezza) il tessuto delle micro e piccole imprese (che costituiscono il 90% delle imprese italiane) rischiano di sommare agli altri rischi aziendali anche quello del costo del personale.
Ciò, inevitabilmente, porterà a ridurre l’assunzione di lavoratori a tempo indeterminato o l’assunzione diretta, ampliando, ancora una volta, lo spettro della precarietà.
Il rischio dei rapporti di lavoro “tossici”
L’altro aspetto che merita un esame è quello che riguarda il rischio del mantenimento di rapporti di lavoro che si potrebbero definire “tossici”, nei quali il datore di lavoro mantiene in azienda dipendenti dei quali non è convinto per il solo timore delle ripercussioni che un licenziamento impugnato potrebbe avere.
Dall’altra parte, i lavoratori, seppure scontenti non lascerebbero un’occupazione senza prima averne reperita un’altra.
Si rischia così di alimentare un clima di sfiducia e di stagnazione: lavoratori demotivati che restano in azienda solo per ottenere un indennizzo, e datori che temono le conseguenze economiche di un recesso.
Conclusione
Se è vero che la Corte ha, con questa sentenza, attuato un profondo cambiamento è altrettanto vero che, da solo, non basta.
Serve, parallelamente, un cambio di mentalità in cui il conflitto lavoratore-azienda si debba spostare dal profilo strettamente economico a quello del dialogo, trasparenza e buona fede contrattuale.
L’investimento prioritario risulta ancora una volta quello della formazione trasversale su tutti i soggetti coinvolti nell’impresa (dal datore di lavoro ai dipendenti).
Ecco che, quindi, in attesa dell’intervento legislativo, i professionisti del lavoro dovranno supportare le imprese e la gestione del personale con un’ottica di sempre maggiore coinvolgimento.